John Cheever, Gli Wapshot

St Botolphs non esiste. Nemmeno Travertine, Nangasakit, Pocamasset esistono. Le abbiamo cercate con attenzione sulle cartine più dettagliate del New England, del Massachusetts, su internet, sì perfino su internet: non abbiamo trovato nulla. Non una menzione, un riferimento indiretto, un indizio. St Botolphs nasce nella geografia dell’immaginazione di Cheever, è il teatro della sua personale rivisitazione della Genesi: una celebrazione della vita o un trattato su come concepire la gioia. Al centro della storia, e nella Storia – gravità immanente dell’imminenza, dell’azione che sfugge, la lingua incapace di tener passo all’intenzione di dire si è bloccata nella bocca –, la vicenda della famiglia Wapshot, gli epigoni del conservatorismo innovativo, della compostezza trasgressiva, i campioni del ricordo e del disprezzo. Loro sono per Cheever, sin dalla prime stesure in forma di racconti pubblicati nell’arco di quattro anni sul The New Yorker, una parabola ideale, un cantiere aperto, un laboratorio sofisticato per l’analisi l’autobiografia la riflessione, a maglie larghe naturalmente, un percorso tortuoso di tante vicende eppure una sola, tanti racconti che si intrecciano nell’arabesco delle pulsioni umane. Un tessuto di folli giri sulle giostre e bucce d’arancia trasportate a riva dal mare, di odori ogniddove, dell’imperturbabile incedere dell’angoscia nell’invadere gli sconfinati territori dell’anima. Il resto è sequenze, trasgressioni, colpa; sequenze, trasgressioni, colpa. E sogni. Pubblicato nel 1957 e vincitore del National Book Award, Gli Wapshot, primo romanzo di Cheever, prosegue idealmente ne Lo scandalo Wapshot prossimamente edito da Fandango.


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