Percival Everett è un autore di culto in America. Vincitore di decine di premi letterari, 14 romanzi e numerosi tra rac­conti e poesie, in Italia è approdato solo pochi mesi fa con Cancellazione, pubblicato da Instar libri, e ora raddoppia con questo Glifo, tra­dotto brillantemente da Marco Rossari che riesce a rendere la lingua ricercata e i giochi sofisticati di rimandi e riferimenti con cui l’autore sfida il suo lettore. Di Everett si dice che sia eccentrico, molto colto, geniale: non si fatica a crederlo leggendo i suoi libri infarciti di citazioni, dialoghi improbabili tra filosofi e scrittori, riflessioni sul linguaggio e sui massi­mi sistemi, un armamentario meta-letterario che contraddistingue la sua opera e la rende sicuramente originale, ma che a volte penalizza la resa narrativa delle sue storie. Ma probabilmente non è questo che gl’interessa. Glifo racconta la storia – scritta in prima persona – di un bambino dotato di un’intelligenza straordinaria che si trova al centro di una girandola di rapimenti, contro-ra­pimenti, piani segreti, e soprattutto in mezzo a un gruppo di adulti incapaci di relazionarsi con lui, a iniziare dal padre («un post-strutturalista fallito»), perso nei suoi sogni di gloria e nella sua adorazione per Barthes, che tra l’altro è uno dei personaggi della vicenda.
Il libro ha le sue pecche: a cominciare dal fatto che si tratta dell’ennesima variazione sul te­ma del genio autistico prodotta dalla narrativa americana contemporanea, già affollata dai vari Molto forte, incredibilmente vicino (Sa­fran Föer) e Teoria e pratica di ogni cosa (Pessl), passando per lo pseudo-autismo narra­tivo di Foster Wallace, che – più ancora che «geni autistici» – mette in scena una scrittura che è di per sé una simulazione della genialità disturbata: ossessionata dai dettagli (al limite del compulsivo), dalla ricerca del «lampo di genio che si fa rivelazione», dalla volontà di farsi esplorazione panottica del mondo.
La particolarità del romanzo di Everett è proprio che il genio in questione è un enfant prodige con un Q.I. di 475, che a dieci mesi di età non parla (ma per sua scelta) e trascorre tutto il suo tempo nella culla a leggere i libri che la madre provvidenzialmente gli passa: madre, guarda­ caso, aliena da letture pop e ben attrezzata con i testi-feticcio dell’intellighenzia americana postmoderna: «la Bibbia, il Corano, tutto Swift, tutto Sterne, Joyce, Balzac, Auden, Theodore Roethke, la teoria dei giochi e quella dell’evoluzione, la genetica e la dinamica dei fluidi». Insomma: il protagonista è già metafora del narratore, intellettuale cresciuto nell’atmosfera dell’America post-pynchoniana, scrittore di quella generazione che si è rifugiata nei libri e nelle scuole di scrittura perché il mondo, fuori, era brutto e cattivo, ma soprattutto volgare e imbarbarito (secondo loro). La struttura del romanzo poi, se da un lato è originale e rivela la gran competenza tecnica di Everett e la sua attenzione agli aspetti formali della narrazione, dall’altro con le ripetizioni di uno schema sempre uguale, con tutti i capitoli gestiti e sviluppati seguendo suddivisioni ben precise, assume connotati claustrofobici eccessivamente artificiali che rinchiudono la storia in una sorta di soffocante gabbia stilistica.
Infine, in un ambiente narrativo dove le catarsi sono derivate da casualità di stampo (ancora una volta) pynchoniano, il contenuto emozionale del testo sta quasi tutto in questa implicita critica dell’universo mondo, l’ennesimo sfogo contro il senso d’impotenza che si respira, e i pericoli in cui ci si può imbattere, nello scenario di un’America trasformata in campo da gioco dei poteri più forti e barbarici: dal potere scientifico (impersonato dalla dottoressa Davies), fino alla long manus occulta del governo (l’agente segreto Nanna). Tutti vogliono impadronirsi del miracolo e proprio di fronte all’essere più indifeso, un neonato, mostrano il loro volto più turpe.
E Ralph è solo un bambino, anche se scrive poesie sofisticatissime e legge di tutto (del re­sto non è nemmeno un vero genio perché, co­me sostiene lui stesso, non è in grado di guida­re) e l’unica cosa di cui ha bisogno è la sua mamma e un ambiente tranquillo in cui cresce­re. Dunque Everett con i suoi discorsi sul linguag­gio, le sue teorie filosofiche, gli sberleffi alla cultura accademica, alla scienza priva di uma­nità e al governo degli Stati Uniti, non fa altro che sostenere che dopo tutto l’unica cosa che vince sull’intelletto è l’amore e che ciò che smaschera l’idiozia dell’ostentazione intellet­tuale è solo l’ironia. Proprio l’ironia con cui Ralph/Everett mena fendenti all’establishment culturale, declinata attraverso trovate argute e taglienti, riflessioni semiserie su significanti e significati, acide sferzate al senso comune unitamente a una scrittura veloce, che incalza e corrompe – salva il romanzo, che troppo spesso appare eccessivamente tronfio e piaciuto, rivelando anche un’umanità profonda e dolente a cui i protagonisti cercano di non soccombere.

Seia Montanelli, Stilos, anno IX, n. 16, 28 agosto 2007






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