Oreste Molina 
             
           
              
             
            C’era […] un grande  “ufficio tecnico” con a capo Oreste Molina, che era un bravissimo grafico.  
            Luca Baranelli e  Francesco Ciafaloni, Una stanza  all’Einaudi, Quodlibet, 2013 
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            La  perfetta sintonia tra forma e contenuto non sarebbe stata raggiunta nelle  edizioni Einaudi senza un uomo di straordinaria intelligenza, Oreste Molina,  lavoratore instancabile, interprete delle esigenze del gruppo degli  intellettuali einaudiani, ed esigente sovrattutto con sé stesso. Impazziva  davanti alla superficialità degli autori, che spesso delegavano a lui la cura  tecnica del libro, lasciandolo alle prese con indicazioni bibliografiche  scorrette, o coi titoli dei libri una volta in corsivo, un’altra tra virgolette  e in tondo. Adesso ti mando le prime cento pagine, il resto seguirà a giorni  scrivevano talune volte gli autori: no, lui voleva tutto il manoscritto, se lo  portava a casa e se lo studiava dalla prima pagina all’ultima, in modo da  essere in grado di risolvere le difficoltà che si presentavano in testi irti di  rimandi, di note, di segni. Molina ha formato alcuni tecnici che ancora oggi  lavorano riferendosi al suo magistero, interrottosi dopo quattro decenni, forse  perché non sopportava l’idea di non interpretare più le esigenze e contrastare  le bizze di colui con il quale per tanti anni aveva colloquiato. 
    
              Giulio Einaudi, Un treno di carta, la  Repubblica, 27 settembre 1988 
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            I vicereami sono  appartati, marginali per definizione. Il piano rialzato che si affaccia su  corso Re Umberto ospita (nasconde) l’ufficio tecnico, cui si può accedere dal  primo piano in fondo al corridoio, attraverso una cigolante scaletta a  chiocciola in legno che pare prelevata da un vecchio veliero dell’Isola del tesoro. Gli uomini  dell’ufficio tecnico sono quello che erano i fuochisti invisibili delle navi a  vapore, ma il loro carbone ha il color giallo paglierino delle bozze, le loro  parole sono le matite e le penne. 
  Anche il loro direttore  Oreste Molina ha cominciato con calzoni corti. Di lui si racconta che nel  dopoguerra possedeva uno scooter, e con quello trasportava l’Editore, che si  acconciava a uno scomodo sellino, contento di fare una cosa avventurosa. Ha un  taglio d’occhi vagamente orientale, sembra un attore francese, uno dei  caratteristi asciutti e muscolosi che si muovono con sicurezza tra bistrot,  angiporti, sale di biliardo, aule di giustizia e lungosenna. Da giovane porta  svelti baffetti. Ha voce di basso, arrochita dalle Gauloises che fuma ininterrottamente.  Traduce lo sprezzante rigore einaudiano in una grafica essenziale. Lui e i due  Giulii hanno un identico sentire in fatto di caratteri, spazi bianchi, impianti  di pagina, frontespizi e copertine. Si intendono senza parlare. 
  Governa i suoi uomini con  pugno di ferro. Come il padrone, è incontentabile, pignolo, intransigente. Ha  una modesta opinione di molti redattori, che considera dei pasticcioni. Gente  che non si rende conto di cosa significhi correggere bozze con la tecnologia  del piombo, intere pagine da rifare per cambiare un aggettivo. Non potevano  pensarci prima, quando il testo era ancora dattiloscritto? Lui dei redattori  non si fida. Per questo si fa consegnare le bozze dei lavori più delicati e  nottetempo verifica, corregge, sistema. La mattina rinfaccia ai reprobi la loro  pochezza. Solo la voce bassa rende meno urticanti le reprimende. 
  La qualità per cui la  casa va famosa (almeno tre giri di bozze per ogni titolo, fino a trentacinque  correttori regolarmente assunti, negli anni Settanta) comporta anche sacrifici  umani. Tebe dalle sette porte chi la costruì? Chi ricorda gli schiavi nubiani  che edificarono le piramidi? 
  I libri di Molina sono  l’immagine della perfezione grafica. Dice di lui l’Editore: 
“È un orologiaio”. 
In fondo è Molina il vero  capo della redazione. Di un rigore fondamentalista è animato anche il dottor  Lovera, ottimo tecnico, che cura le imprese più ardue, i libri scientifici, le  Concordanze della Divina Commedia, la Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti del Rohlfs. 
“Chi ha preso il mio  lentino?” urla il dottor Lovera, e si mette a frugare furiosamente nei cassetti  dei collaboratori. Il lentino gli serve per controllare la pulizia dei caratteri.  Per il puntino di una i impresso non  nitidamente fa scenate ai tipografi. 
Redattori e correttori  non vedono mai l’Editore. Vivono immersi in un silenzio conventuale. L’eco di  quel che accade al primo piano arriva attutito e insieme carico d’un’aura  favolosa, epica. 
            Ernesto Ferrero, I migliori anni della nostra vita,  Feltrinelli, 2005 
              
            Un grafico interno lo  devi avere, e questo di fatto è stato Oreste Molina, il direttore tecnico: un  grande grafico. Però gli innestavo Munari. C’era un suo controllo continuo.  Molina è nato in tipografia. È cresciuto così, con un vero gusto grafico, e non  gli dispiaceva affatto avere questo appoggio esterno di Munari. […] 
  La nuova versione dei  Millenni è venuta […] pian piano. Hai presente i Millenni cinesi? Li hai mai  visti? Chin P’ing, I briganti, Il sogno della Camera Rossa… È una grafica studiata con Oreste  Molina: nostra era anche l’impaginazione interna del testo, non solo la  copertina. Così i primi Millenni del Parnaso  italiano, diretto da Muscetta, che si sarebbe poi concluso con quel volume  di Edoardo Sanguineti sul Novecento. […] 
  I Millenni di letteratura  cinese […] si rilegavano non in tela, ma in seta. La seta non era incollata; ci  sentivi la grana del tessuto. E le illustrazioni interne erano su carta cinese  molto leggera e trasparente, che veniva stampata da una parte sola e poi  ripiegata in modo che l’illustrazione non trasparisse. Era un’avventura, con  Molina che aspettava con ansia la carta e la seta che dovevano arrivare dalla  Cina. 
  Molina riusciva a dare il  libro “commerciale”, per così dire, con una raffinatezza unica, da edizioni per  bibliofili. Non parlo solo di questi, del tutto eccezionali, Millenni della  seta. Dicevamo tra noi: queste opere devono restare per un lungo periodo,  devono essere trasmesse di padre in figlio per l’eternità o giù di lì, e quindi  devono essere stampate in modo, per quanto possibile, perfetto. Con carta  pregiata, la grafica curata in ogni dettaglio, le illustrazioni realizzate nel  miglior modo possibile. E questo è proprio merito di Oreste Molina, il quale si  è appassionato al libro attraverso la pratica grafica, la tipografia, e non  perché provenisse da una stirpe di raffinati bibliofili. 
  […] Ebbi con lui in certi  anni, poniamo dal ’45 al ’52, lunghi contatti quotidiani. È stata un’università  reciproca: io ho imparato da lui, lui imparava da me. Poi anche con lui, come  con Cerati e Munari, bastava un’occhiata per capirsi. Il rapporto con Molina  era legato alla pagina, alla perfezione proprio grafica e formale del libro.  Dalla rilegatura alla scelta della carta, ai caratteri, sempre la ricerca del  nuovo, ma nella tradizione, intesa proprio come continuità formale. […] Molina  trattava gli autori con estrema fermezza. Esigeva chiarezza di disposizioni. I  segni diacritici e tutto l’apparato filologico dovevano essere chiari, essere  ben predisposti già da prima: “Io non mi metto a comporre un testo se non ho  delle indicazioni” diceva Molina. E Contini lo apprezzava molto; aveva con lui  un ottimo rapporto. Molina riteneva invece un gran confusionario uno pur  bravissimo come Dante Isella, perché secondo lui le sue indicazioni erano  talvolta contraddittorie. 
  Molina guardava il testo  che il redattore gli passava da stampare, e: “Ma come, queste note, le note son  fatte da cani, le citazioni son sbagliate, non hanno segnato dove mettere i  corsivi e i tondi…”. Talvolta preparava lui stesso il manoscritto per la  stampa. E preparandolo, notava: “Questa frase non sta in piedi, questa nota non  funziona, questa citazione è sbagliata”. E andava a controllare, sul libro  citato, se la frase corrispondeva. Passava le notti sui manoscritti. Spesso poi  si offendeva con i redattori. In certe riunioni tra redattori e ufficio tecnico  faceva prediche violentissime: la redazione non fa nulla, non si occupa di  niente, mi tocca fare cose che non mi competono. Intendiamoci, non che facesse  modifiche al testo, questo poteva farlo solo l’autore su suggerimento del  redattore che aveva in cura quel determinato libro, ma per lui non poteva esser  tutto lì il lavoro dei redattori. Avrebbero dovuto anche controllare che le  note e i corsivi, e ogni elemento del testo, fossero al posto giusto; per lui  non era sufficiente che i libri fossero letti e preparati per la stampa. Voleva  qualcosa di più. Si accorgeva che non sempre la redazione entrava nel merito, e  allora per certi libri, testi di filologia, per esempio, tendeva a un rapporto  personale con l’autore. 
  […] E i libri importanti  o più difficili da comporre, come i saggi critici di Contini, o un testo della Nuova  raccolta di classici italiani annotati, li seguiva di persona. Uno dei libri  cui ha lavorato con Contini è L’opera in  versi di Eugenio Montale, esempio straordinario di edizione in cui c’è un  grande critico che la cura, con le varianti e il testo annotato, e una  realizzazione della pagina che stupisce. 
              Molina era un orologiaio:  il suo era un lavoro di precisione. Prova a guardare con attenzione una pagina  di quel Millennio di Montale o certe pagine di un testo della Nuova raccolta di  classici italiani annotati. Sono capolavori. 
            Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, Einaudi,  2007 
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            Molina controllava con  Ponchiroli la perfezione filologica del libro. Tra i due c’era un rapporto  molto stretto: per questo il peso e la fatica vera dell’uscita dei libri, come  il peso di reggere ogni imprevisto, erano in pratica nelle loro mani. […] 
  I libri […] non sarebbero  usciti in quel numero e in quella qualità senza il continuo battagliare di  Molina, che questi redattori non li poteva soffrire, perché erano secondo lui  un po’ approssimativi, tranne Baranelli che […] era molto preciso. 
  O forse dovrei dire,  piuttosto, che Molina non poteva soffrire la vaghezza, le parole, le  chiacchiere, la mentalità per cui un libro era fatto quando, dopo un po’ di  telefonate, arrivava il manoscritto. Cominciava da lì, secondo lui, il lavoro.  Il manoscritto doveva esser letto, per controllare se c’eran dei punti vuoti,  delle sviste: “Dovete sapere se il libro è valido,” ripeteva ai redattori “non  basta sapere che ciò che avete chiesto è un libro sul Rinascimento: poi nessuno  l’ha guardato, e non avete visto che ci sono errori; manca questo e  quest’altro”. Molina, e i suoi collaboratori, il libro finivano per conoscerlo  più di certi redattori, affrettati e superficiali; soprattutto, stranamente,  nell’area di grande finezza intellettual-operaista. Anche Carlo Muscetta, che  operaista non era, a volte sapeva tuttavia mettere Molina a dura prova. Lui  stava a Roma, e “mandava su”. Manca la prefazione: quando arriverà? Arriverà.  “Componete intanto” era solito dire. Si fa presto a far libri così. 
  […] Molina e Ponchiroli  li vedevo ogni giorno, ma soprattutto li vedevo nelle riunioni di produzione,  quegli incontri periodici per il controllo progressivo del piano. Ci si vedeva  con il caporedattore, i direttori editoriali, tecnici e commerciali, e se era  il caso con qualche responsabile di collana, di cui si dovesse discutere.  Quando c’erano le tre sedi, Torino, Roma e Milano, e stavo spesso a Milano, il  piano somigliava al quadro degli orari nelle stazioni; solo che al posto delle  città di partenza o d’arrivo c’erano i titoli dei libri su una colonna, e sulle  altre lo stato di avanzamento del lavoro tipografico. 
  Molina segnava con colori  diversi lo stato di lavorazione di ciascun titolo. Così si accorgeva subito,  visivamente, quando a uno mancava il risvolto, all’altro la prefazione. 
            Severino Cesari, op. cit. 
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            La grafica, l’immagine, lo stile e anche la perfezione  del libro Einaudi non esisterebbero senza il lavoro rigoroso, attento ed  indispensabile di Oreste Molina. È lui che pensava alla vera forma del libro,  non solo alla sua soglia. Competenza e passione sono unanimemente riconosciute.  Bollati: «Bisognerebbe fare un monumento a Oreste Molina». E Einaudi, parlando  di i Millenni (ma di certo pensava a tutti i suoi libri): «Queste opere devono  restare per lungo periodo, devono essere trasmesse di padre in figlio per l’eternità  o giù di lì, e quindi devono essere stampate in modo, per quanto possibile,  perfetto. Con carta pregiata, la grafica curata in ogni dettaglio, le  illustrazioni realizzate nel miglior modo possibile. E questo è proprio merito  di Oreste Molina, il quale si è appassionato al libro attraverso la pratica  grafica, la tipografia, e non perché provenisse da una stirpe di raffinati  bibliofili». 
              Il segreto è il dettaglio, quello che i grafici  (anche i più bravi) non vedono o che sottovalutano. Il dettaglio è il rispetto  per il lettore, per l’autore, per l’opera. Senza Molina lo stile Einaudi  avrebbe annaspato, le nebbie avrebbero circondato il principe e le corti  umanistiche, il libro non avrebbe brillato sui banchi delle librerie. Molina sa  davvero cosa significa fare un libro, e questo evidenzia anche la debolezza di  una certa cultura grafica, da designer, per i fondamenti tipografici e della scrittura.  Non per fare il bell’oggetto, ma per fare il libro utile. 
              Quanta sapienza e lungimiranza Molina ha avuto nel  scegliere la bolognese Simoncini, per far disegnare il carattere dedicato,  quando a Torino c’era la più grande fonderia italiana. Il Garamond Simoncini è  proprio un carattere su misura, dove il committente è tanto sapiente come il  realizzatore. I mezzi punti tipografici commissionati da Molina sono il  dettaglio, la reale necessità, quello che di certo serve per risolvere la  pagina. La Nebiolo era troppo «commerciale» o troppo «araldica» e blasonata.  «Molina guardava il testo: […] le note son fatte da cani, le citazioni son  sbagliate, non hanno segnato dove mettere i corsivi e i tondi […]. Passava le  notti sui manoscritti […] era un orologiaio: il suo era un lavoro di precisione.» 
              Questa è la «grafica» Einaudi, che necessita come  una vigna di tante mani e di un buon conduttore che sappia scegliere e dire ai  suoi quando serve un innesto e quando vendemmiare. «All’interno avevamo un  grafico bravo. Ma c’è bisogno anche di una consulenza esterna, che appunto era  quella di Munari. Un grafico interno lo devi avere, e questo di fatto è stato  Oreste Molina,» racconta il vignaiolo Giulio «il direttore tecnico: un grande  grafico. Però gli innestavo Munari». 
            Mario Piazza, Il  libro al centro: l’Einaudi e la grafica, doppiozero.com, 26 marzo 2016 
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            Tra i pochi amici di Levi alla Einaudi c’era il  direttore di produzione Oreste Molina, uomo incredibilmente preciso e dal lento  eloquio che Levi conosceva sin dal 1949. Taciturno ma cordiale, da tecnico  Molina era più incline di Giulio Einaudi ad apprezzare Levi come chimico. Lo  ospitava spesso nella sua fattoria alle porte di Torino (La Mattutina), dove  bevevano il Barbera frizzante di cui Molina produceva ben oltre 1500 litri  l’anno. Entrambi piuttosto alticci, discutevano di rilegatura, impaginazione e  composizione tipografica. Il parlare autentico e scanzonato di Molina era un  piacere per Levi. Talvolta si univa loro lo scozzese Alan Nixon, un autore di  thriller che gestiva un’agenzia di traduzione in corso Re Umberto. Come Molina,  Nixon se ne intendeva di cibo e vino piemontese. 
            Ian Thomson, Primo  Levi. Una vita, DeA Planeta, Milano, 2017 
             
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Oreste Molina, che se ne è andato il 21 agosto a 91  anni, con l’abituale discrezione, era uno di quegli uomini che fanno grande  un’impresa restando nell’ombra. Direttore tecnico della Einaudi per  quarant’anni, a partire al dopoguerra, ma in realtà molto di più: un grande  grafico, che dialogava da pari a pari con Albe Steiner, Max Huber, Bruno  Munari, un maestro di stile, un interprete geniale dell’anima dei libri dello  Struzzo, in cui forma e sostanza devono coincidere. Con i due Giulii, Einaudi e  Bollati, ha un’identica sensibilità in fatto di impianti di pagina, frontespizi,  copertine, scelta delle carte più raffinate. Ha commissionato alla bolognese  Simoncini quello speciale tipo di Garamond che rende inconfondibilmente  eleganti i volumi che escono da via Biancamano. Attraverso quelli, ha  contribuito a una sorta di educazione del gusto degli italiani. 
  Un  orologiaio, lo ha definito Einaudi. Fisico asciutto, modi bruschi, voce di  basso, sempre avvolto in una nuvola di Gauloises, ha cominciato con i calzoni  corti, in tipografia. Incontentabile, pignolo, intransigente, persegue la  qualità con scrupolo ascetico. Vuole almeno tre giri di bozze per ogni titolo,  arriva ad avere alle sue dipendenze 35 correttori. Di fatto, è un  caporedattore-ombra. Prima di mandare in composizione un manoscritto se lo  studia nottetempo da cima a fondo, scopre traduzioni zoppicanti, citazioni  sbagliate, note pasticciate, e il mattino dopo impartisce dure reprimende ai  redattori, per lui sempre troppo approssimativi. Lo temono anche autori e  curatori, ma ne apprezzano l’autorevolezza. Gianfranco Contini ne ha grande  stima: dalla loro collaborazione nascerà il Millennio di L’opera in versi di Montale, mirabile capolavoro di eleganza  grafica. Era di quelli, Molina, convinti che le vere rivoluzioni si cominciano a  fare chiedendo il massimo a sé stessi, mirando alla perfezione d’ogni  dettaglio. Dunque così inattuale, così necessario. 
 
Ernesto Ferrero, Addio  a Oreste Molina, anima discreta dello Struzzo, «La Stampa», 4 settembre  2017  
 
  
              
              
              
         
                  
                 
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