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Luigi Guidi Buffarini
Luigi Guidi Buffarini


La letteratura, la filosofia e la scienza sono dei succedanei e la vita un susseguirsi di giorni e di notti, la notte invasa dai sogni e i giorni dai problemi della quotidianità.
Poi, naturalmente, c’è l’amore.
Luigi Guidi Buffarini, La notte ha un nome solo, nottetempo

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“Ho conosciuto Gigi molti anni fa e ne ho un ricordo pieno d’affetto. Lui per me è stato molto più di un editor, è stato il mio scopritore, il mio carissimo amico, perfino il mio testimone di nozze.
Avevo appena completato la stesura di Il mangiatore di carta e consultando il catalogo della SugarCo pensai che il mio libro potesse ben accostarsi alla loro linea editoriale. Spedii il manoscritto direttamente a Luigi Guidi Buffarini, e pochi giorni dopo lui mi telefonò entusiasta per dirmi che gli era piaciuto e che erano interessati a pubblicarlo. Ci incontrammo e ricordo che ci trovammo subito simpatici. Anni dopo mi raccontò che durante le riunioni di redazione, il lavoro quotidiano eccetera eccetera, capitava che anche lui mangiasse la carta, fogli di giornale, quaderni, tutto quello che gli capitava sotto mano: per questo il mio libro l’aveva tanto colpito, non solo perché lo trovava ben scritto e per tutti i motivi canonici, ma perché in fondo quella era anche una sua ossessione.
Poi, quando arrivò il momento della promozione, Gigi mi affidò a una giovane addetta stampa, raccomandandosi con lei di seguire da vicino me e il mio libro, perché ci teneva. Così io cominciai a passare molto tempo con questa donna finché non me ne innamorai; finì che ci sposammo, e Gigi fu il mio testimone di nozze. Da allora la nostra amicizia è continuata nel tempo, ci vedevamo spesso e facevamo lunghe chiacchierate. Era davvero un grande affabulatore, un conversatore affascinate, forse l’ultimo che io abbia avuto il piacere di incontrare. Con lui si poteva parlare di ogni àmbito culturale, conosceva la letteratura, la filosofia ed era ferrato anche nelle materie scientifiche; i suoi discorsi erano sempre strabilianti e mai ripetitivi. Io cercavo di tenermi nel settore letteratura perché per il resto era davvero irraggiungibile, non per nulla il soprannome che qualcuno usò per lui negli anni è stato ‘Gigicultura’.
Gigi era così, era un uomo straordinario, affascinante, di una cultura incredibile, molto raffinato. Chiunque rimaneva ammaliato dal suo charme, tutti, uomini e donne, soprattutto le donne! Io scherzavo con lui perché in qualunque posto andassi a Milano mi capitava puntualmente di incontrare una qualche sua ex fidanzata, fisicamente somigliava molto a Maximilian Schell e, senza esagerare, era uno che seduceva. Nonostante questo il suo carattere non era privo di spigolosità, era un tipo a cui non interessava piacere a tutti i costi, a volte diveniva un po’ tagliente ecco, come il suo profilo. La sua anima toscana.
Mi raccontò che negli anni Settanta andò in Inghilterra per perfezionare la lingua, e per mantenersi lavorò in un bar come cameriere. In quel locale ebbe la fortuna d’incontrare Elias Canetti, che spesso si recava lì per scrivere. Con grande orgoglio mi mostrò una preziosa edizione di Massa e potere in francese con dedica.”
Nostra intervista a Edgardo Franzosini, così in seguito quando non diversamente segnalato

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Molto tempo fa, molto prima che mi conoscessi, immagina un ragazzo, un uomo?, sono io, poco più che ventenne, seduto, nei momenti in cui sono libero, in un caffè di una Londra ormai remota dove lavoro come coffee boy, davanti un signore sulla sessantina. Il signore ha una folta chioma di capelli neri tagliati a spazzola e due spessi baffi, questi già striati di bianco, nonché un paio di occhiali tondi come il suo volto vagamente slavo. È basso, robusto e trasporta sempre con sé una cartella piena di libri assieme a un grande quaderno a righe sul quale scrive, quasi in continuazione, con una calligrafia minuta, una serie di frasi in tedesco con una matita che appunta, spesso, con quello che dovrebbe, anzi certamente si chiamava e ancora si chiama un temperalapis. Il signore in questione è un grande scrittore. Non ha ancora ricevuto il Premio Nobel per la letteratura ma lo riceverà di lì a qualche anno. È noto negli ambienti della cultura e autore di molti testi straordinari ma è così riservato che, in questo quartiere, solo io e pochi altri sappiamo chi è veramente. Mi dice: “La morte è uno scandalo, un insulto per l’uomo. Perché dovremmo accettare che la vita ci venga tolta? Non mi ricordo, con esattezza, quale sia stata la mia risposta. Forse un balbettante: “I agree with you”.
Ma che importanza può avere tutto questo? Io ho lasciato Londra e il gran signore della letteratura è morto come tutti gli altri anche se molti anni dopo […]. Ho letto la notizia con una stretta amara di sincero dolore, dato che i miei rapporti con quello straordinario scrittore – così riservato da voler essere soltanto una voce che parlava attraverso i suoi libri: che senso avrebbe inseguire conferenze e premi, mi aveva detto una volta, il mio posto è qui fra la gente di ogni giorno e, quando capita, di ogni notte – non si erano limitati a qualche breve conversazione ma erano durati un anno intero, durante il quale lo avevo ascoltato, in silenzio religioso, mentre mi parlava della Vienna della sua giovinezza, delle sue teorie, dei grandi artisti che aveva conosciuto.
Da La notte ha un nome solo

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Come molti, ero vissuto a metà di illusioni e di cose concrete, perché, senza un minimo di concretezza, è difficile sopravvivere. Avevo fatto diversi lavori ma la mia passione erano i libri e ora operavo come traduttore e consulente per una casa editrice. Nella passione dei libri non c’è nulla di eccezionale e se mai, come Joyce ci ricorda, un pericolo: la biblioteca come metafora di Scilla e Cariddi. Non così dimentico di me, ero sempre riuscito, anche per un’istintiva pulsione alla sopravvivenza, a passare indenne fra questi due scogli pericolosi ma l’avanzare del tempo, senza che me ne accorgessi del tutto, sottraendomi ogni illusione, mi aveva privato anche di ogni desiderio.
Da La notte ha un nome solo

 

Tasco tascotascotasco

“Come editor l’apporto di Gigi è stato incommensurabile, aveva una sensibilità letteraria e un talento tali da intuire benissimo quello che la società era pronta a recepire, e addirittura di anticiparlo. Per esempio fu lui che scoprì Hermann Hesse prima ancora di Adelphi, che portò per la prima volta in Italia Bukowski, e poi Burroughs, e soprattutto John Fante; quest’ultimo gli piaceva molto, era un po’ il suo pallino questo scrittore. Amava particolarmente la letteratura anglosassone, e poi la grande tradizione tedesca. Tra l’altro fino a circa quattro anni prima di morire Gigi frequentava, d’estate, dei corsi di tedesco, a Berlino, per perfezionare la lingua. Era una persona instancabile. Poi, nel 1978, mise in piedi la collana di tascabili, la Tasco, che ha innegabilmente un catalogo eccezionale.”

 

tasco tasco, music tasco

 

I Tasco, Tascabili SugarCo, partiti la scorsa primavera come appendice della produzione editoriale della casa madre dovevano di quest’ultima raccogliere i vecchi titoli di catalogo e, rinfrescatili magari con una prefazione o introduzione di aggiornamento, consentirne la vendita per qualche altro migliaio di copie a un prezzo economico. Ma Luigi Guidi Buffarini, quando si vide affidare la direzione dei Tasco, partì subito con ben altri propositi. Intanto, i vecchi titoli andavano selezionati, tenendo soprattutto conto di quanto c’era da scartare in modo da ripubblicare solamente il meglio e che comunque reggesse l’attualità. Poi, se si presentava l’occasione, la collana economica andava rinvigorita con dei Tasco originali ossia mai pubblicati prima in edizione normale. E anche questo, non tanto secondo un concetto economico ma qualitativo: cioè quando il tema e lo svolgimento si distinguessero per l’interesse pregnante e il valore culturale. È avvenuto forse così che ci siamo ritrovati con una collana di tascabili in cui non appaiono più di due titoli al mese, ma che in meno di dodici mesi ha già offerto autori e opere che sono punti fermi nella cultura mondiale, e il tutto a prezzi tra le 1500-2500 lire, che sono tra i più bassi per quanto riguarda i tascabili. Ne citiamo alcuni: due Hesse giovanili: Amicizia e Viaggio in India; due volumi di Pellicani sul leninismo e sulle interpretazioni del comunismo nel momento in cui le strutture ideologiche portanti del proletariato sono messe in discussione specialmente da sinistra; il Che significa pensare? di Martin Heidegger, sullo Zarathustra nietzschiano; Freud o Jung, di Edward Glover, uscito trent’anni fa per merito di Mario Spinella, ora ristampato con una prefazione di Elvio Fachinelli, sempre di grande attualità; un volume dei saggi di Musil, ecc. Delineando quelle che sono state le direttrici di partenza della collana dei Tasco abbiamo praticamente fornito gli elementi essenziali di quello che sarà l’indirizzo per il futuro. Fra le prossime uscite, ancora Heidegger, sempre con le sue lezioni dalla cattedra di Friburgo, ma non più sullo Zarathustra di Nietzsche, ma più precipuamente su Parmenide e il nihilismo moderno. Poi, Factotum, dell’americano Charles Bukowski, il cui caso è esploso in Italia proprio da qualche mese a questa parte… Infine, nella saggistica apparirà un altro «originale», La città del futuro di Mitscherlich, una serie di saggi tecnicoutopici, sulla organizzazione di una città del futuro. Così, attenendosi ai temi di attualità, sia ripescandoli nel passato da quei vecchi titoli che hanno saputo anticipare di molto le linee del pensiero e della critica, sia andando a pescare le novità che avessero una maggiore carica di originalità e garantissero un peso specifico intellettuale o di riuscita a livello artistico, i Tasco si avviano ad affrontare il loro secondo anno di vita in un settore, quello degli economici, dove la concorrenza non scherza, non fosse altro per la presenza di colossi editoriali che dispongono in esclusiva di migliaia di titoli.
Aldo Chiaruttini, il Giornale, 15 marzo 1979

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Col passare del tempo la collana Tasco della SugarCo si sta rivelando una delle più fini e brillanti iniziative editoriali di questi ultimi anni nel campo della saggistica. I repêchages compiuti da Guidi Buffarini sono quasi sempre azzeccati e stimolanti.
Sergio Moravia, Tuttolibri, 21 giugno 1980

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Sono ormai ventiquattro i titoli usciti nella collana che Luigi Guidi Buffarini dirige da due anni e mezzo. Letti di seguito questi libri rivelano subito un umore individualista e con Durrell, Drieu La Rochelle, Burroughs, Carmelo Bene e Oscar Wilde, anche un po’ tenebroso e dissacrante. Hermann Hesse spadroneggia con cinque titoli già pubblicati e un sesto in arrivo (la biografia di Francesco d’Assisi, una delle sue opere giovanili). Poi è arrivato Charles Bukowski…
Marialivia Serini, l’Espresso, 30 marzo 1980

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Fortunatamente, in quegli anni Settanta in Italia Bukowski era stato scoperto e promosso da un editor non conformista come Gigi Buffarini Guidi – suo nonno fu il ministro di Mussolini finito ucciso nei tragici giorni del ’45 – che lo propose al suo editore, il socialista libertario Massimo Pini, per le edizioni SugarCo. E nelle librerie italiane comparvero quindi capolavori come il romanzo Factotum e i racconti A Sud di nessun Nord. E poi l’operazione procede fino al 1980 e 1981, quando la SugarCo dà ancora retta a Buffarini Guidi e fece uscire DonnePost Office, e Compagno di sbronze, e Storie di una vita sepolta
Luciano Lanna, segnavia1.rssing.com, 4 marzo 2014

 

buffarini, bukowski

 

“Pronto, vorrei parlare con Charles Bukowski.”
Sto telefonando da un albergo di Los Angeles, la città di quello che la stampa ha definito il più maledetto degli scrittori americani: Charles Bukowski, appunto, nato in Germania nel 1920, emigrato coi genitori negli Stati Uniti all’età di due anni, ex vagabondo, ex uomo di fatica, ex impiegato delle poste e ora autore famoso.
“Sono io” risponde una voce maschile roca, strascicata, con un forte accento californiano ma calda, intensa.
Devo parlargli per motivi di lavoro connessi ai suoi interessi editoriali in Italia. È già stato preavvisato del mio arrivo per lettera, altrimenti non sarebbe così facile incontrarlo. Gli chiedo di fissarmi un appuntamento. “Oggi proprio non posso,” mi risponde con gentilezza “sono qui con i postumi di una sbornia, ieri ho avuto una serata un po’ movimentata e non mi sento mai troppo bene il mattino dopo. Un altro giorno, però, andrà benissimo”. Lo ringrazio e fissiamo la data dell’appuntamento.
Dopo aver deposto il ricevitore penso che, ancora una volta, Bukowski non si è smentito: alcol e sregolatezza, gli aspetti della sua persona che insieme ai suoi libri e inestricabilmente coi suoi libri, quasi tutti autobiografici e sotto forma di romanzo (quello che c’è scritto nei miei libri, ha dichiarato Bukowski in un’intervista, è al 95% verità e al 5% invenzione), hanno contribuito a soffiare sul fuoco dei mass media che hanno fatto di lui lo scrittore maledetto per eccellenza catapultandolo, all’improvviso, dall’anonimato alla fama internazionale: sono ansioso di constatare di persona quanto ciò sia vero […] So che Bukowski ha cambiato casa da poco. Prima abitava a East Hollywood, nella parte alta della città, in un piccolo appartamento di due stanze. Da qualche mese si è trasferito a San Pedro con Linda King, la sua ultima compagna, uno dei personaggi del suo romanzo Donne […]. Per altro sono preoccupato. Da quanto mi ha raccontato il suo agente tedesco che lo conosce bene, Bukowski è spesso imprevedibile nei suoi comportamenti. Mi viene in mente una frase del suo libro: “Umanità, mi stai sul cazzo da sempre!… questo è il mio motto”; se, come lui stesso ha dichiarato, i suoi libri corrispondono al 95% della realtà, c’è poco da stare allegri. Per non correre rischi decido di fermarmi a un telefono pubblico per confermare l’appuntamento. Mi risponde la stessa voce dell’altra volta. Solo, alla mia domanda se sto parlando con Bukowski, la voce dice “Bukowski non c’è, se ne è andato in crociera. Sono suo fratello Hank”.
Così, rifletto, la mia premonizione era esatta. Deve aver cambiato idea. Non ho però intenzione di rinunciare alla visita perché so benissimo che Hank è il diminutivo di Henry, Henry Chinaski, il personaggio principale dei suoi romanzi (più tardi apprenderò che è anche il suo, dato che il nome completo di Bukowski suona: Charles Henry Bukowski, Hank appunto). “Vengo lo stesso” dico e abbasso precipitosamente il ricevitore per paura che quella voce beffarda mi dissuada.
[…] Mi aspetta in piedi, con un sorriso sornione. È un uomo massiccio, alto circa un metro e ottanta, il ventre gonfio del bevitore, una grande testa leonina con un naso grasso e butterato così come il volto, quel volto che, come lui ha scritto, vorrebbe potersi pettinare come i capelli. E in mezzo a quel volto due incredibili occhi di un verde dorato acuminati di intelligenza e di ironia. È in maniche di camicia e scalzo. Mi stringe la mano mentre mi sussurra ammiccando: “Bukowski non è in casa, sono suo fratello Hank” come per dire: ho cercato di fregarti e non ci sono riuscito, ormai sei qui e va benissimo. Mi fa sedere su un divano del salotto. Accanto, sulla mensola del camino, una ricchissima collezione di lattine di birra.
Ho portato con me tre bottiglie di vino italiano. Poche, me ne accorgerò tra poco. […] “Non sono venuto da lui per intervistarlo, per fargli precise domande di letteratura ma […] quando, nonostante tutto, entriamo nel discorso, mi conferma di non sopportare i letterati. Non hanno alcuna esperienza della realtà. Stanno sempre fra loro, parlano fra loro, e quello che poi scrivono non ha alcuna attinenza con la vita. Quando, da giovane, aprivo qualche libro, mi trovavo sempre davanti a romanzi che raccontavano di cose che non mi riguardavano. Certo, c’è John Fante che è un grande scrittore, e Hamsun, ma soprattutto Céline. Quando mi sono imbattuto in Viaggio al termine della notte son rimasto folgorato […].” Ora gli chiedo come se la cava con tutto quell’alcol che beve (in quel paio d’ore si sarà scolato almeno tre bottiglie). Io che ho cercato di stargli dietro ho già lo stomaco in subbuglio e mal di testa. “Non me la cavo” mi risponde “bevo e basta. Ormai è troppo tardi per smettere. Quando la mattina, dopo essermi preso una sbronza, mi alzo, vado subito in bagno a vomitare e poi sto meglio. L’esperienza e i soldi, però, possono essere d’aiuto. Prima quand’ero povero, ero costretto a bere del vino di scarto, ora posso permettermi del vino di qualità e questo è già qualcosa e poi ci sono dei rimedi”.
Mi porta in cucina, davanti a un monumentale frigorifero. Dentro non c’è cibo ma un’innumerevole collezione di boccette e boccettine piene di pillole. Pillole contro il mal di stomaco, pillole contro la sbornia, pillole di vitamine. Con solidarietà mi prepara un efficacissimo rimedio per il mio stomaco. Lui non ne ha bisogno. […] “Hemingway va bene” mi aveva detto poco prima. “Ma gli lascio le sue guerre e le sue avventure pericolose. Io ho scelto di scrivere di quello che capita a me e a quelli come me, di tutta questa gente, milioni di uomini e donne, che muoiono e diventano pazzi giorno dopo giorno.” Ecco il vero inferno, l’inferno di coloro che non possono comunicare, di coloro che stanno impazzendo. Da questo inferno Bukowski è riuscito a tornare e ha dato voce a quelli che, altrimenti, non l’avrebbero mai avuta e che, adesso, si identificano con i suoi libri. Forse è questo il motivo del suo successo, soprattutto in Europa, dove i giovani resistono con più forza alla rigidità della società della tecnica e con più coscienza rivendicano i diritti della persona contro la massificazione e l’afasia. Tutti hanno diritto di esprimersi, tutti di vivere una vita decente. Forse non tutti ci riusciranno ma Bukowski ha dato loro una speranza. Cosa dice infatti Bukowski? Dice che si può passare attraverso una cruna dell’ago della società moderna anche senza impazzire del tutto, che si può sopravvivere e restare sé stessi, che si può avere successo ed essere apprezzati anche senza leccare il culo a nessuno. Certo non tutti sono Charles Bukowski, non tutti scrivono, ma chi era Bukowski prima di diventare uno scrittore famoso? Lui sa di cosa parla. […] Stiamo tornando verso il mio albergo. […] Prima di separarci gli chiedo un autografo. Sorride maliziosamente. “Le mie mutande!” si mette a gridare. “Te lo farò sulle mie mutande!” Estrae da sotto il cruscotto un vecchio paio di mutande che gli servivano evidentemente come strofinaccio per il vetro dell’auto, le firma e me le porge. Ecco, questo è Bukowski. La coscienza della fatica, del dolore e della follia della vita ma anche lo sberleffo ironico che la riscatta. Il successo non lo ha cambiato, lui riesce ad essere sempre sé stesso. Un grande scrittore? Un poseur che pensa solo ai soldi e alla fama? La critica è divisa. Certo è che una generazione si sta riconoscendo nei suoi libri. Il tempo ci dirà chi ha ragione.
Da 25 anni di un editore. La storia della casa editrice SuperCo. 1957-1983

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“Con Massimo Pini c’era un bel rapporto, avevano bisogno l’uno dell’altro. Pini era un uomo dal carattere abbastanza impossibile, molto autoritario, anche se io penso fosse più una corazza perché poi, nel profondo, non era così. Naturalmente subiva il fatto che Gigi fosse coltissimo e lo rispettava molto per questo, però gli incontri tra loro erano abbastanza tesi, appunto perché avevano entrambi due caratteri forti. Poi Gigi voleva una SugarCo più orientata verso la cultura, la letterarietà, mentre Pini la voleva più impegnata e caratterizzata politicamente, e poi avendo molti incarichi – entrò nel consiglio di amministrazione dell’Iri e della Rai – magari non aveva più quell’attenzione degli inizi. Nei primi anni, quando erano presenti entrambi, la casa editrice era molto importante nel panorama italiano, pubblicavano titoli e autori fondamentali e soprattutto originali per l’Italia di quegli anni, opere letterarie, erotici, gotici e anche best seller, per esempio Peter Kolosimo, che fu un grande successo, anche se non penso che in quel caso Gigi prese granché parte alla cosa, non era il genere di libri che piaceva a lui. Tra l’altro Pini era un grande collezionista di letteratura erotica.”

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Massimo Pini, friulano per nascita e milanese per scelta, sopracciglia brezneviane e gessato da boiardo di Stato, poi superconsulente nel mondo imprenditoriale-finanziario, già potentissimo vertice della Rai e dell’Iri, amico fraterno e braccio destro di Bettino Craxi (la sua fedeltà al leader fece dire di lui che era “il più craxiano dei socialisti craxiani”), fondatore, giovanissimo, della mitica casa editrice SugarCo, fu – appunto – tra i massimi collezionisti italiani di letteratura erotica. “Nella mia vita ho amato due cose soprattutto. I libri e la politica.” Della politica, alla fine, si è stufato. I libri, invece, sono diventati una passione sempre più esclusiva. […] “Avevamo una grande curiosità per la letteratura, soprattutto straniera. Iniziammo subito le pubblicazioni con nomi importanti. Tra i primissimi Samuel Beckett, di cui Einaudi aveva in catalogo le opere teatrali: noi invece facemmo conoscere in Italia i suoi romanzi, una decina d’anni prima che vincesse il Nobel. Poi traducemmo Focus di Arthur Miller, dopo arrivarono Trotzkj, Charles Bukowski, Kolakowsky, Marshall McLuhan… Portammo in Italia le memorie di Henry Kissinger: Gli anni della Casa Bianca… Traducemmo per primi, nel 1967, Storia e coscienza di classe di György Lukács sul quale il Pci aveva posto un veto, lo considerava un eretico. Andai di persona a Budapest per convincerlo. A pranzo firmò lui stesso il contratto, mentre di solito nei paesi comunisti erano le agenzie di Stato a farlo… Se ci penso, furono anni davvero avventurosi. Pieni di follie e di battaglie.”
Folle e battagliera, irregolare e creativa, la piccola casa editrice SugarCo fu, all’epoca, una delle poche non conformiste che lavoravano fuori dall’influsso culturale del Pci. “E infatti non fu facile. Eravamo liberi di scegliere quello che volevamo pubblicare, ma non era semplice stare sul mercato, avere una buona stampa, poter contare su una distribuzione efficiente… Anche se, ad esempio, la collana tascabile – la famosa Tasco, di cui era responsabile Luigi Guidi Buffarini – andava benissimo. Stavamo in un ufficietto in galleria Vittorio Emanuele a Milano, poi ci trasferimmo in viale Tunisia. Andavamo avanti tra alti e bassi: i primi successi come Il maneggio di Pamela Moore, e poi i libri di Kerouac, e poi Il pasto nudo di Burroughs, che in quegli anni nessuno voleva pubblicare: lui passò anche qui, da casa mia…” E poi anche Neruda, Ortega y Gasset, romanzi maledetti come Gilles del collaborazionista Drieu La Rochelle… E, soprattutto, in nome della fedeltà politica e ideologica a Bettino Craxi, la storia del pensiero socialista italiano, a partire dall’opera omnia del segretario del Garofano, con un’intera collana dedicata a Ghino di Tacco, nom de plume del leader…
Ma anche, segno della passione futura, classici proibiti come i romanzi del Marchese de Sade, saggi sulla sessuofobia, o L’arte erotica dell’antica Cina di Kazuhiko Fukuda… “E le opere di Wilhelm Reich. Medico e psichiatra austriaco allievo di Freud, noto per aver scoperto la materia sessuale di massa: era morto nel 1957 e in Italia di lui si sapeva davvero poco. Io pubblicai praticamente tutto: alla fine degli anni Sessanta andai negli Stati Uniti, parlai con la Fondazione che ne curava l’opera, e acquistai i diritti di traduzione… Ogni libro, una storia.” La SugarCo, tra gli anni Sessanta e Settanta, pubblicò centinaia e centinaia di libri, con centinaia e centinaia di storie, fino a quando… “Fino a quando, nei rampanti anni Ottanta, accadde che l’editoria, da artigianale che era, si trasformò in industria. Divenne un business e per noi fu tutto più difficile.” Nel 1993 Pini e Sugar vendettero il pacchetto di maggioranza della casa editrice a Sergio Cigada, allora prorettore dell’Università Cattolica di Milano (scomparso nel 2010) e fratello di Oliviero, che divenne l’amministratore delegato della SugarCo.
Ma questa sì che è un’altra storia, e un’altra SugarCo. La storia della collezione di libri erotici, invece, inizia nella vecchia SugarCo. “Nel 1969 pubblicammo un libro – per me straordinario – in due grossi volumi, Arcana, dal sottotitolo molto curioso: Il meraviglioso l’erotica il surreale il nero l’insolito nelle letterature, nelle arti figurative e plastiche, nel cinema e nei mass media di tutti i tempi e paesi. Sotto la nostra direzione lavoravano molti studiosi, specialisti delle varie materie, e io, mentre selezionavo il materiale iconografico per quel libro, ricchissimo di immagini, iniziai a raccogliere i libri erotici e organizzare il nucleo di una collezione che poi è cresciuta negli anni.”
Luigi Mascheroni, il Giornale, 31 dicembre 2012

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“Il valore di Gigi come editor fu eccezionale, ma lui era anche un bravissimo scrittore. Scrisse un libro bellissimo su Kathmandu, pubblicato con un titolo diverso da quello attuale, ed è la storia di questo viaggio, suo e di questi suoi improvvisati compagni, per l’India. E poi ci fu un secondo libro, nell’83, che era un giallo d’azione sullo spionaggio, mi disse: ‘Ho cercato di scrivere un libro con tutti gli ingredienti con cui si fanno i best seller americani’.”

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Come la vita di tutti, la mia non aveva nulla di particolarmente eccitante, a esclusione di alcuni viaggi giovanili, vagamente avventurosi, compiuti al limite della sopravvivenza economica – se saltare un pasto su due o a volte due su tre può essere considerato tale. In realtà non lo è per nulla ma i risultati, se si sopravvive senza contrarre una tbc cronica, possono almeno, anche se non spesso, ampliare gli orizzonti della mente.
Da La notte ha un nome solo

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Negli anni Settanta si partiva da Istanbul, in Turchia. La meta era Kathmandu, in Nepal. Si viaggiava a bordo dei Ford Transit o dei mitici Volkswagen. Sulle orme dei figli dei fiori americani – ma anche dei Beatles, che in India avevano trovato nuove psichedeliche fonti d’ispirazione – orde di ventenni partivano alla volta dell’Oriente, lasciandosi alle spalle mamme piangenti e padri incazzati. All’epoca, Luigi Guidi Buffarini non aveva l’età, nel senso che aveva già trent’anni, e poca o niente predisposizione per le droghe. Eppure, fu proprio lui a organizzare il viaggio che oggi racconta in un libretto delizioso che ha il sapore e l’odore e la musica di quegli anni: La lunga strada per Kathmandu – Quando gli hippies migravano a Oriente (Ignazio Maria Gallino Editore). L’ingrediente che fa di questo diario di viaggio un godibilissimo viaggio nel tempo non è, come si potrebbe credere, la nostalgia ma una forte autoironia. Certo, un intervallo di quarant’anni dall’esperienza alla sua descrizione aiuta: lo scrittore di oggi non può che guardare con disincanto al ragazzo di ieri e ai suoi compagni d’avventura, anche se assicura che lo scetticismo che traspare dalle pagine è lo stesso con cui ieri affrontò l’impresa. Del resto, un particolare differenziava nettamente il viaggio di Guidi Buffarini da quello dei giovani che all’epoca migravano a Oriente: “Secondo il linguaggio del tempo… ognuno aveva il suo trip: chi la religione, quasi sempre il pantheon indiano, ma anche il buddismo, chi la droga, chi il misticismo, chi la comunanza umana, quest’ultima un modo come un altro per entrare in rapporti più stretti con l’altro sesso”. Il trip dell’autore, o meglio lo scopo finale della lunga trasferta, era la stesura di una guida ragionata a uso degli hippies di ogni latitudine. Ed è proprio sulla scorta degli appunti presi per questa guida (poi effettivamente pubblicata con il titolo Viaggio all’Eden, Olympia Press 1973, ma mai tradotta all’estero, come l’autore confidava) che sono stati ricostruiti luoghi, alberghi, ostelli, prezzi dell’epoca. Ciò che invece Guidi Buffarini non poteva trovare negli appunti è lo spirito dei tempi, che ha però efficacemente ricostruito ripescando nella memoria gli episodi salienti e gli incontri strampalati avvenuti durante il viaggio.
Ecco dunque il “malgascio”, atletico esemplare di pelle nera, lingua francese e coltello facile, incontrato in un pulciosissimo albergo di Istanbul, che si aggrega alla compagnia (l’autore e altri due amici) fino al suo arresto, in Afghanistan, per traffico di stupefacenti, lo stesso reato per il quale era dovuto fuggire dalla Francia. E poi altri passeggeri paganti raccattati lungo la strada: l’americana Susan e la francese Francine, perennemente strafatte e fonti di innumerevoli guai, una coppia di inglesi ributtanti (lui viene chiamato “l’uomo delle spelonche”) e un’italiana, Grazia, dalla storia tragica. Ma vero protagonista del racconto è il viaggio stesso, svolto a bordo di un furgoncino Ford Transit che l’autore, con un tantino di giovanile megalomania, battezza “Le roi des Belges”, come il battello che in Cuore di tenebra di Joseph Conrad percorre il fiume Congo alla ricerca di Kurtz. Anche i nostri viaggiatori avevano il loro Kurtz da scovare in Nepal su incarico della mamma, una senatrice democristiana. E riuscirono pure a trovarlo a Kathmandu, alla fine del loro viaggio che aveva toccato Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan, India e, appunto, Nepal. “Non dirò the horror, the horror, sarebbe troppo scontato. L’orrore vero è quello di vivere in famiglia, almeno nella mia” dirà Giuliano-Kurtz ai suoi ritrovatori. La cifra del racconto, si diceva, è l’autoironia: Guidi Buffarini prende costantemente in giro il suo io giovanile, antieroe per eccellenza: “No, decisamente non ero il tipo del viaggiatore coraggioso e neppure tollerante: non sopportavo i disagi, non sopportavo il caldo, la sete, le cimici, la sporcizia, la stanchezza, fino al punto di non osservare ciò che mi stava intorno se non con l’occhio del sopravvivente. Anche adesso, sotto la volta del cielo stellato, sapevo che a guardarla con occhio distaccato l’alba rossa che si stava annunciando su quell’arido deserto mi sarebbe apparsa divina. Io, però, sarei stato pronto a scambiarla senza rimorsi con un bicchiere di acqua minerale ghiacciata con le bollicine”.
Il viaggio attraverso le “Porte della percezione” – quelle che danno il titolo al saggio di Aldous Huxley sull’esperienza con la droga e il nome al gruppo di Jim Morrison, i Doors – non ha mutato l’autore e i suoi compagni: “Per dirla con le parole di Huxley, non ci aveva molto mutato. Forse ‘non tornavamo indietro più saggi, meno spocchiosi e neppure più felici’… Per adesso tornavamo e questa, per il momento, era già una bella fortuna”.
Valeria Gandus, il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2011

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“Un episodio emblematico della persona che era Gigi fu quando dovette presentare il suo libro su Kathmandu in una libreria a Milano. Si presentò con i Pensieri di Giacomo Leopardi, e lesse e commentò il pensiero n. 20, nel quale Leopardi ironizza e deride l’uso del suo tempo – ma ancora oggi attualissimo – di presentare i libri e far ascoltare ad altri le proprie composizioni: ‘Parlo del vizio di leggere o di recitare ad altri i componimenti propri: il quale, essendo antichissimo, pure nei secoli addietro fu una miseria tollerabile, perché rara; ma oggi, che il comporre è di tutti, e che la cosa più difficile è trovare uno che non sia autore, è divenuto un flagello, una calamità pubblica, e una nuova tribolazione della vita umana. […] Ma oggi la cosa è venuta a tale, che gli uditori, anche forzati, a fatica possono bastare alle occorrenze degli autori. Onde alcuni miei conoscenti, uomini industriosi, considerato questo punto, e persuasi che il recitare i componimenti propri sia uno de’ bisogni della natura umana, hanno pensato di provvedere a questo […] in breve apriranno una scuola o accademia ovvero ateneo di ascoltazione; dove, a qualunque ora del giorno e della notte, essi, o persone stipendiate da loro, ascolteranno chi vorrà leggere a prezzi determinati: che saranno per la prosa, la prima ora, uno scudo, la seconda due, la terza quattro, la quarta otto, e così crescendo con progressione aritmetica. Per la poesia il doppio. Per ogni passo letto, volendo tornare a leggerlo, come accade, una lira il verso. Addormentandosi l’ascoltante, sarà rimessa al lettore la terza parte del prezzo debito. Per convulsioni, sincopi, ed altri accidenti leggeri o gravi, che avvenissero all’una parte o all’altra nel tempo delle letture, la scuola sarà fornita di essenze e di medicine, che si dispenseranno gratis. Così rendendosi materia di lucro una cosa finora infruttifera, che sono gli orecchi, sarà aperta una nuova strada all’industria, con aumento della ricchezza generale’. E questa fu la presentazione del libro di Gigi, parlò della curiosa pagina di Leopardi sul vizio di presentare libri. Racconto questo episodio per dare appunto un’idea del personaggio che era, anticonformista e distaccato da qualunque manifestazione eccessiva dell’apparire”.

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Ho sempre dubitato dell’amore perché, come tutto, anche l’amore è, in buona parte, un fenomeno del caso. In ogni amore c’è sempre qualcosa di sbagliato nel senso che gli amanti si sopravvalutano. Ma in rapporto a che cosa? Esiste un punto di riferimento dell’amore che possa essere definito in maniera assoluta, come un teorema di matematica, Gödel a parte? Ovviamente no.
Da La notte ha un nome solo

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Tu eri romantica ma pratica, io scettico ma inetto. Il nostro era un sodalizio meraviglioso, nonostante i tuoi ritardi, i mille oggetti inutili che mi portavi a casa nascondendoli dietro i miei libri, le tue rivolte improvvise quando ti facevo un’osservazione, le tue minacce di lasciarmi al primo contrasto. Eri un dono di Dio come la vita e come la vita un dono difficile da sopportare ma anche di cui era difficile fare a meno.
Da La notte ha un nome solo

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“Gigi a un certo punto incontrò una donna meravigliosa, indomabile, con un carattere molto particolare, che amò perdutamente e che poi divenne la sua compagna di vita. Si chiamava Božidarka, Teodora in italiano, era di origine croata. Sono stati due amici per me indimenticabili, non è facile parlarne. Se ne sono andati nel giro di pochi anni l’uno dall’altra e dopo la morte di lei per Gigi fu molto difficile tornare a essere quello di prima. Una donna con un’ossessione compulsiva per lo shopping – aveva qualcosa come trecento paia di scarpe – prima di conoscere Gigi aveva tenuto anche uno scimpanzé in casa, lui invece aveva un gattino. Durante la guerra della Jugoslava, negli anni Novanta, lei si occupò di una ragazza serbo croata rimasta orfana di entrambi i genitori e la mantenne agli studi, era una donna generosissima e piena di vita. Gigi l’amava per questo. Il loro è stato un grandissimo amore che lui, secondo me, è riuscito a rendere molto bene in La notte ha un solo nome.
Il fatto curioso è che Gigi si pentì amaramente di averlo pubblicato. Fosse stato per lui non ne avrebbe venduta neanche una copia. Non voleva mai parlarne, aveva quest’idea assurda che in qualche modo, scrivendo questo libro, avesse mancato di rispetto al suo amore. Forse ha pensato di aver rivelato ad altri qualcosa che doveva rimanere solo suo della Božidarka. Erano conviventi e si sposarono pochi giorni prima che lei morisse.”

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Un altro anno sta per finire, diciotto della nostra convivenza ed è qui che, riprendendo una vecchia proposta che tu hai sollevato qualche volta senza tuttavia mai insistere troppo e che io ho sempre rifiutato, come spinto da un impulso improvviso ti ho chiesto: “Perché non ci sposiamo?”. Tu mi hai guardato, ti ricordi? Come se non capissi. Come se questa domanda fosse fuori luogo o giungesse tardiva. Ma poi, un largo sorriso ti ha illuminato e mi hai risposto che sì, avremmo proprio dovuto sposarci. […] Sono appagato del fatto che l’aver superato i miei pregiudizi sul matrimonio ti renda felice, seppure ciò sia misto al terrore che tu non sia del tutto in te. Ma tu sembri di nuovo lucidissima, come se quest’avvenimento, pur così formale, ti riavvicinasse alla vita […] C’erano ancora dei giorni ai quali si poteva dare un nome e, tutto sommato, si trattava ancora di nomi che avevano a che fare in pieno con la vita.
Da La notte ha un nome solo


luigi guidi buffarini, la notte ha un solo nome, nottetempo

 

 

 

 

 

 

 

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