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Nicolas de Staël

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Nato il 5 gennaio 1914 a San Pietroburgo da famiglia aristocratica (il padre era il generale barone Vladimir de Staël-Holstein), allo scoppio della rivoluzione è costretto a fuggire in Polonia, dove, pochi anni dopo (1922), rimane orfano di entrambi i genitori. Adottato da una famiglia russa residente a Bruxelles, si trasferisce in Belgio, dove frequenta l’Accademia di belle arti. Conclusi gli studi si dedica ai viaggi: visita l’Olanda, la Spagna, il Marocco e l’Algeria, la Francia, l’Italia. È in questo periodo che incontra la pittrice Jeannine Guillou, con la quale si sposa e si stabilisce a Parigi nel 1943, dopo aver prestato servizio, dal ’39 al ’40, nella Legione straniera. A Parigi la coppia vive in estrema povertà, tanto che nel 1946 Jeannine muore di stenti (de Staël si risposerà nello stesso anno con Françoise Chapouton, dalla quale avrà tre figli). Sempre nel ’46 arrivano i primi successi: firma un contratto con Louis Carré, espone a Parigi, Londra, New York e Washington, e terminano così le preoccupazioni finanziarie.
Nel ’53 intraprende, con la famiglia e alcuni amici, un viaggio attraverso l’Italia che lo porterà da Genova alla Sicilia, alle cui spiagge è ispirato il ciclo di dipinti Agrigente. Il suo stile, che ha già subito diversi cambiamenti (dal figurativo iniziale al geometrico), sembra finalmente raggiungere in questi quadri quell’equilibrio fra pittura astratta e figurativa che de Staël ha ricercato per tutta la sua carriera.
Incapace di sopportare il peso del successo improvviso, il 16 marzo del 1955 si suicida, gettandosi dal balcone della sua residenza di Antibes.

*

“Il suo suicidio ha lasciato tutti perplessi. Come spiegarlo? Lo straordinario non ha bisogno di commento. Si può tuttavia fare un’ipotesi che sarà una risposta soltanto per coloro che hanno affrontato l’abisso delle notti in bianco. De Staël conosceva questo abisso da iniziato, da specialista della vertigine. Rimpiangerò sempre di aver ignorato la misura delle sue prove. Se l’avessi intuita sarei sicuramente diventato suo amico, giacché esiste una complicità fra gli insonni, fra questi maledetti puniti per reato di lucidità. Vegliare vuol dire essere coscienti al di là del sopportabile, non poter dimenticare, subire la continuità dell’intollerabile. Mentre quelli che dormono incominciano ogni mattina un altro giorno, per l’insonne oblio non è possibile, poiché giorno e notte egli affronta incessantemente lo stesso inferno. Fu al terzo tentativo che per de Staël l’incubo ebbe fine. Non si tratta dunque di un’improvvisazione ma di una necessità, di un compimento, insomma di una liberazione. Le sue opere degli ultimi anni testimoniano una febbre, un’apocalissi interiore che esigeva il coronamento della morte […] Le ultime lettere rivelano chiaramente i suoi dubbi sul proprio avvenire di pittore, come pure il suo terrore dinanzi al vicolo cieco. Egli non vedeva come avrebbe potuto evolversi, come avanzare ancora. […] incominciava a tormentarlo il successo sempre maggiore che incontravano le sue tele recenti, mentre le prime gli erano costate sforzi infinitamente maggiori. Vedeva in ciò una sorta di ingiustizia che aggravava le sue insonnie. Non si possono spingere impunemente gli scrupoli tanto oltre. E tutti questi scrupoli, così contraddittori, alimentati dal suo squilibrio, non potevano che accelerare la sua fine. Ancora giovane – aveva soltanto quarantuno anni, era giunto al termine di sé stesso. Dopo tutto avrebbe potuto rinunciare alla pittura, cessare senza dramma di puntare su sé stesso, e abbandonarsi a un nulla qualsiasi, dunque tollerabile. Ma non ha voluto sopravvivere a sé stesso, odiava la rassegnazione. Da vero artista, si è rifiutato di venire a patti con la mediocrità della saggezza.”

Emile Cioran, “Nicolas de Staël, la morte arriva da una tela bianca”, Corriere della Sera, 13 maggio 1994

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“Io non oppongo la pittura astratta alla pittura figurativa. Un quadro dovrebbe essere al tempo stesso astratto e figurativo. Astratto in quanto muro, figurativo in quanto rappresentazione d’uno spazio.”

Intervista, 1952, in Marie du Bouchet, Nicolas de Staël. Une illumination sans précédent

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“Impressionista non so cosa voglia dire perché quando s’inquadrano aggettivi la pittura svanisce. Troppo vicino o troppo lontano dal soggetto, non voglio essere sistematicamente né l’uno né l’altro, e con ciò tengo alla mia ossessione, perché senza quella non farei niente, ma l’ossessione del sogno o l’ossessione vera non so cosa sia meglio e io, in definitiva, me ne infischio, purché tutto questo si equilibri come può, possibilmente senza equilibrio. Perdo a ogni istante il contatto con la tela e lo ritrovo e lo riperdo… è necessario giacché credo alla casualità, non posso andare avanti che da accidente ad accidente, dal momento in cui una logica mi sembra troppo logica; questo mi snerva e vado naturalmente verso l’illogicità. Certamente tutto questo non è facile a dirsi, né a vedersi, non esiste un vocabolario, e se volete, il modo di misurarlo sarà ancora da inventare quando avrò finito di dipingere.”

Lettera a Douglas Cooper, gennaio 1955, in Nicolas de Staël, Cieli immensi. Lettere 1935/1955

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“Quel che cerco di ottenere è un continuo rinnovamento, davvero continuo, e non è facile. Conosco la mia pittura, e so che sotto le sue apparenze, i suoi perpetui giochi di forza, è una cosa fragile nel senso del buono, del sublime. È fragile come l’amore. Credo, nella misura in cui posso controllare me stesso, di cercar sempre di compiere, più o meno, un’azione decisiva rispetto alle mie possibilità di pittore e quando mi precipito su una tela di grande formato, nel momento in cui sta diventando buona, avverto ogni volta atrocemente una parte troppo grande di casualità, come una vertigine, un azzardo nella forza che, malgrado tutto, conserva il suo aspetto aleatorio, il suo lato di virtuosismo a rovescio, e questo mi getta sempre in condizioni pietose di scoraggiamento. Non riesco a reggere, e anche le tele di tre metri che inizio e su cui pongo poche pennellate al giorno, riflettendoci, finiscono sempre nella vertigine.”

Lettera a J. Dubourg, fine dicembre 1954, in Nicolas de Staël, Cieli immensi. Lettere 1935/1955

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“Era traboccante di entusiasmi, impetuoso, tenero, con un fondo sottile di mestizia per una costante nostalgia di assoluto; cosciente della sua instabilità, del suo essere di passaggio; a ventitré anni scriveva: ‘So che la mia vita sarà un viaggio continuo su un incerto mare, è una ragione per costruirmi un solido battello’. […] Era potente e fragile […] Sopportò spesso una grande miseria, molta fame, molto freddo, la vita spoglia e desolata; e anche quando, raggiunto dal successo, Paul Rosenberg, che era stato il mercante di Picasso, gli assicurò da New York moltissimi milioni, ne rimase indifferente, e continuò la sua vita sempre più chiusa nella solitudine, soltanto con più colori, con molte tele, con un grande studio, dichiarando però che sarebbe tornato ‘a crepare di fame’ se le necessità della sua pittura, libera da ogni fine, lo avessero richiesto. Non aveva alcun interesse per i soldi, per la gloria, per i premi, per le mostre, il successo gli era solo di ostacolo; non leggeva le riviste d’arte né i critici; leggeva solamente i poeti. Aveva una sensibilità fortissima per la musica, che forse fu l’unica cosa a influenzare a fondo la sua pittura […]. Difficile dire da dove venga la sua pittura. Non da Cézanne; forse in parte da Courbet passando per Bonnard. Ma è ancora lui a riconoscere: ‘I buoni quadri sono quelli di cui si può dire che non si sa dove vanno né da dove vengono’. A chi gli chiedeva se fossero impressionisti rispondeva di non sapere che cosa ciò significasse. Né aveva senso per lui il dibattito o contrapposizione, così vivace e dilagante, in quegli anni Cinquanta, tra astratto e figurativo. La sua pittura era al di là sia di un termine che dell’altro. Alcuni grandi quadri […] come Le Parc de SceaauxL’OrchestreLes grands footballeurs, che dovrebbero stare, secondo la comodità delle partizioni critiche, nel periodo ‘figurativo’, sono opere in cui la pittura tocca culmini di tensione e di bellezza ma senza possibilità, e necessità, di immagine immediatamente riconoscibile, né sono lontani dalla realtà e dalla verità. L’Orchestre è come un palpito d’ali, un soffio immenso, una luminosa vela, o anche un muro celestiale, cui il digradare e il trascorrere innumerevole dei grigi, tutti diversi di tono e di valore, conferisce distesa armonia.

[Dipinse] anche un gruppo insolitamente ricco di paesaggi siciliani.

Nei primi, quasi tutti intitolati Agrigente, la materia è ridotta alla sua essenza come per una combustione operata dalla luce, i colori raggiungono sotto quella pioggia luminosa la loro pienezza; la luce li modifica, li esalta e li fissa; i cieli si fanno rossi, neri, verdi, le strade gialle, le case viola.”

Roberto Tassi, “Nicolas de Staël angelo disperato”, la Repubblica, 3 settembre 1991

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“Sono divenuto anima e corpo un fantasma che dipinge templi greci e un nudo così adorabilmente ossessivo, senza modello, che si ripete e finisce coll’annebbiarsi di lacrime. Non è davvero atroce, ma spesso si raggiunge il limite. Quando penso alla Sicilia, che è essa stessa un paese di veri fantasmi, dove solo i conquistatori hanno lasciato delle tracce, mi dico che sono racchiuso in un cerchio di stranezze dal quale non si esce mai.”

Lettera a René Char, 12 ottobre 1953, in Laurent Greilsamer, Le Prince foudroyé. La vie de Nicolas de Staël

“Per tutta la vita ho avuto bisogno di pensare alla pittura, di vedere quadri, di fare della pittura per aiutarmi a vivere, di liberarmi da tutte le impressioni, tutte le sensazioni, tutte le inquietudini alle quali non ho mai trovato altro scampo che la pittura”.


“Lavoro incessantemente e credo che la fiamma aumenti ogni giorno e spero di morire prima che si abbassi”.

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“Lavori per sé, solo per sé. È questo il meglio di noi stessi… Appena ‘la cosa’ si vende, appena vengo preso in considerazione, appena si dice che sono sulla strada del successo, è finita, amica mia… Non c’è più niente. La cosa si svuota… Ho perso il mio universo e il mio silenzio. Divento cieco. Ah, Dio… poter tornare indietro! Non essere nessuno per gli altri e tutto per sé stessi… Se non ha ancora perso il suo mondo, lo custodisca gelosamente, lo difenda contro l’invasione; da parte mia, muoio proprio di questo…”

Lettera a Madeleine Haupert, fine 1953 o inizio 1954, in Laurent Greilsamer, Le Prince foudroyé. La vie de Nicolas de Staël

“Il contatto con la tela, lo perdo ad ogni istante e lo ritrovo e lo perdo…”

Lettera a Douglas Cooper, gennaio 1955, in Nicolas de Stael, Cieli immensi. Lettere 1935/1955


“Non ho la forza di concludere i miei quadri.”

Lettera a J. Dubourg del 16 marzo 1955, in Laurent Greilsamer, Le Prince foudroyé. La vie de Nicolas de Staël

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Veyne: “René pensava che il suicidio avesse motivi legati non alla vita privata, ma all’insoddisfazione che Staël provava nei confronti dei suoi ultimi quadri. L’arte può uccidere, ripeteva”.

Paul Veyne, René Char en ses poèmes

“Nicolas de Staël, lasciandoci intravedere il suo battello impreciso e azzurro, ripartì per i mari freddi, quelli a cui si era avvicinato, figlio della stella polare.”

René Char, “Excursion au village”, in Aromates chasseurs

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Antibes, 16 marzo 1955
Sta nella sera, che scende con il passo di un araldo. Scrive. Al suo mercante, Jacques Dubourg, scrive: “Non ho la forza di finire i miei quadri”. Lascia sul cavalletto l’abbozzo del Concert, musica ferita. Apre la finestra del suo studio e si butta disotto, su quelle mura di pietra in faccia al mare. Cos’è una vita se non sai più dipingerla?

Eugenio Baroncelli, Falene, Sellerio

 

 

 




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