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Robert Olen Butler
Vietnnam, Louisiana

In Vietnam il tempo
non è così importante.


Il cielo della Louisiana assomiglia al cielo del Vietnam, nel West Bank del Mississippi ci sono bayou dove acqua e terra convivono in un equilibrio delicatissimo, e sembra di stare nel delta del Mekong. Moltitudini, stratificazioni di profughi e di emigrati vietnamiti dopo la presa di Saigon da parte dei comunisti, nel 1975, si sono riversati in un territorio che facilmente è diventato il loro. Sradicati, trapiantati, eppure rinati e rivitalizzati. Alcune zone di New Orleans, cittadine come Lake Charles e Versailles non sono di certo l’America, le loro vie assomigliano piuttosto alle strade di Saigon o di Hanoi, a stento si trovano cartelli in inglese. Il Vietnam è anche lì, la diaspora vietnamita prosegue tiepida, Nord e Sud, buddhisti e cattolici, i vietnamiti operosi e quelli pigri, quelli freddi e impenetrabili, quelli con il cuore negli occhi. E vietnamiti tutti di un pezzo, donne con i loro aó dài, case con l’altare per gli antenati, odore di incenso, di cibo speziato, fantasmi, un placido senso del perdono; ma anche vietnamiti americanizzati orgogliosi anzi desiderosi di essere chiamati americani, e i figli di tutti questi, loro sì americani e basta.
Non c’è nulla di esotico, nulla di manierato, nessuna esibizione folkloristica nella prosa di Butler. Egli è piuttosto un medium che dà voce alle voci, ne ripropone il vibrante ricordo, la toccante urgenza di confessione. Perseguitati dal proprio passato e vittime silenti, tormentati nei confronti dei loro ospiti americani, questi emigrati immaginari cercano una tregua per le loro guerre personali, e grazie a Butler le loro storie inondano di luce territori oscuri e spesso ghettizzati in rappresentazioni stereotipate.
“Tutti e diciassette i narratori dei racconti sono creature del mio inconscio”, ha affermato una volta Butler, e sembra che il suo sia un atto di fraternizzazione, forse di identificazione, di condivisione di quello che Jung chiama l’inconscio collettivo.
Cosa rimane? La stessa identica distanza tra la nostra cultura e la loro, ma l’eco di quelle voci e il loro rapporto con il passato, il loro tempo immobile inducono a una riflessione sul nostro tempo, sul nostro passato. Quando non si può tornare indietro si può sempre accendere una lanterna di carta di riso in una notte buia, guardare il cielo e ricordare.


Ormai mi sentivo americano.


Biografia del libro

“Nel gennaio 1989 ero nel bel mezzo della scrittura del mio sesto romanzo, The Deuce. Mi chiesero di scrivere un racconto per un’importante emittente radiofonica. Pensai che avrei potuto metterci qualcosa del folklore vietnamita su cui mi stavo documentando per il romanzo e qualche ricordo della mia esperienza in Vietnam. Pensai di parlare di questa mania, tutta vietnamita, di catturare, allenare e far combattere i grilli. Poi sentii dentro di me la voce di un padre vietnamita, un uomo che aveva scelto l’esilio americano per sé e i suoi cari per sfuggire alle conseguenze della guerra. Volevo documentare il difficile rapporto di quel padre con il figlio, nato e cresciuto in America e di fatto americano, e lo scarso interesse che riceve quando prova a fargli vedere i combattimenti tra grilli. Beh, in un’unica seduta di sei ore scrissi il racconto che poi ha preso il nome di ‘Grilli’. La mattina seguente mi svegliai con una ridda di voci nella testa, una ventina di vietnamiti impazienti di raccontarmi le loro storie”. Butler scrisse il libro a Lake Charles, Louisiana, il Vietnam americano, su un Tandy 1400 Lt, un “portatile” da oltre sette chili. La trasposizione su carta di quelle voci – “un amalgama di me stesso e dei tanti vietnamiti che ho conosciuto durante la guerra e poi in Louisiana” – richiese un maniacale editing di affinamento.


Selezione stampa
- “[…] una scrittura sottile, una sensibilità acuta e una pacatezza disarmante […]. Una scrittura che parla a tutti e cinque i sensi, una prosa-architetto che con le parole costruisce fantasie forti, immagini strutturare che difficilmente possono essere dimenticate.”
Flavio Camilli, fuorilemura.com, 18 ottobre 2010

- “Scritti in prima persona, con fare minimalista, questi organismi autonomi ubbidiscono a Butler che riesce a dirigerli e a dar loro la forma di un romanzo corale, circolare […]. La realtà di quanto raccontato è straniata da atmosfere leggermente fantastiche fatte di omissioni, di cose non dette, del ritegno nel parlare / parlare di sé. Sottofondo il dolore, mai ostentato, che filtra presente e passato.”
Ana Ciurans, Blow-up, marzo-aprile 2010

- “Sedici storie scritte con maestria raccontano la perdita della patria degli immigrati vietnamiti.”
Luca Bonora, Tino Mantarro, Qui Touring, marzo 2010

- “[…] una sorta di Spoon River raccontata dai vivi, ogni racconto dei diciassette in prima persona, ogni storia vissuta dal punto di vista di un vietnamita trasportato, sradicato, esiliato […].”
Irene Bignardi, la Repubblica, 16 gennaio 2010

- “[…] un bellissimo libro, un gioiello […]”
Matteo Nucci, il Venerdì di Repubblica, 2 gennaio 2010










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